L'eclissi del lavoro nelle politiche scolastiche - CENTRO FORMAZIONE BETANIA

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L'eclissi del lavoro nelle politiche scolastiche

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Otium e negotium - Nel  novembre 1676 Gottfried Wilhelm Leibniz entra in una casa di mattoni rossi alla periferia settentrionale dell'Aja e incontra Baruch Spinosa. L'incontro dura poche ore o forse qualche giorno. Tra le tante controversie che affrontano, Leibniz  sentenzia: "La cultura libera dal lavoro". "Ogni uomo colto che non conosca un mestiere, prima o poi diventa un furfante", replica Spinoza, nella stanza buia e stretta dove accanto a un piccolo tavolo pieno di appunti fa bella mostra di sé un tornio per molare le lenti. Leibniz si fa interprete del pregiudizio idealista che contrappone cultura e lavoro. L'autore dell'"Ethica more geometrico demonstrata", che faceva l'ottico e il filosofo, interpreta invece non solo il valore culturale ma anche il senso morale del lavoro e del lavoro benfatto. Non a caso  il "capolavoro" costituiva l'esame di maturità degli apprendisti delle botteghe artigiane. La cultura idealistica imperniata sulla antica contrapposizione otium-negotium ha veicolato la percezione di una distanza incolmabile  tra scuola e lavoro. Già la regola di San Benedetto ("ora, lege et labora"), ha capovolto questo paradigma. In  Italia il pregiudizio rimane e spinge le famiglie a optare per i licei e considerare scuole di serie B gli indirizzi tecnici e professionali. Per una singolare eterogenesi dei fini, l'idealismo tipico del pensiero politico della destra storica si è gradualmente diffuso in ampi settori della cultura progressista  e del mondo sindacale.
 
"La riforma della scuola approvata dal governo il 1 febbraio 2001 riporta l'orologio del Paese indietro di decenni, quando studiare era un privilegio per pochi e lavorare precocemente una certezza per tanti". Così il Leader della Cgil Scuola Panini stigmatizzava  una riforma, (poi smontata) che intendeva valorizzare il filone tecnico-professionale e introduceva, nell'art. 4 l'alternanza scuola-lavoro. Negli stessi anni altro era il punto di vista dei progressisti francesi. In un Manifesto per l'educazione globale pubblicato su "Le Monde Education" nel gennaio 2002 e firmato da Jean-Luc Melenchon, all'epoca Ministro dell'istruzione, si afferma: "Tutto il sistema educativo deve essere riorganizzato in modo tale da garantire che a partire dai 15 anni fino ai più alti livelli universitari nessun anno di studio sia concluso senza la possibilità di un accesso ad un titolo professionalizzante". Il documento francese si conclude puntando il dito contro "i discorsi fumosi sulla fine del lavoro" e insiste sulla necessità di sviluppare sistemi di alternanza proprio per rispondere alle esigenze degli studenti. Il Rapporto  Ocse "Education at glance"  mette in luce che l'assenza di un corposo canale professionalizzante sia uno dei limiti del sistema educativo italiano. Le ricerche internazionali  suggeriscono modalità di apprendimento basati su didattica laboratoriale, work based learning e compiti di realtà.  L'alternanza, istituita in Italia con la legge 53/2003, resa obbligatoria con la legge 107/2015 e sostituita dai cosiddetti Pcto (Percorsi per le competenze trasversali e l'orientamento) con la legge 145/2018, aveva come scopo proprio la ricostruzione del rapporto tra insegnamento e vita reale. Eppure, nella Repubblica "fondata sul lavoro", il lavoro  ha subito una progressiva, inarrestabile eclissi, proprio all'interno del sistema educativo.  
 
Dalla scuola al lavoro - Il rapporto tra cultura e produzione, tra sistema delle conoscenze e sviluppo economico, è uno dei fondamenti della civiltà occidentale. Oggi non si può essere professional senza avere quelle spiccate doti di comunicazione e capacità di lavorare in team che proprio gli studi superiori promuovono. Né si può dimenticare che ben poche competenze professionali sono acquisibili senza quella elevata capacità di sintesi, astrazione, concettualizzazione che solo una buona scuola può dare. Non può esistere una educazione generale senza una educazione al lavoro e quest'ultima ha senso in relazione alla prima. L'educazione al lavoro non può essere relegata negli indirizzi tecnico-professionali. Le imprese dal canto loro possono offrire alle scuole competenze didattiche e docimologiche, aiutare gli studenti nella transizione scuola-lavoro, ospitarli in stage e tirocini, creare prodotti tecnologici che favoriscano l'efficacia dell'insegnamento.  
 
Il piano Medici - Vorrei citare un concreto esempio di un’altra Italia che pure c’è, operosa, competente, generosa, lungimirante, ma che non conquista i piani alti della politica.  Correva l’anno 1959. Il Ministero dell’istruzione era guidato da Giuseppe Medici. Un politico che veniva dal mondo dell’agricoltura ma che aveva capito che il futuro dell’Italia era nell’industria. Medici chiese ad un istituto di ricerca lo SVIMEZ, una indagine per sapere di quanti diplomati tecnici l’apparato industriale italiano avrebbe avuto bisogno nei successivi 10 anni  per svilupparsi adeguatamente. Fu istituita una Commissione di esperti presieduta  da Mario Martinelli. Il segretario di quella Commissione,  Giuseppe De Rita. All’epoca gli iscritti alle scuole tecniche in Italia erano 293 mila.  La Commissione scientifica suggerì al Ministro che  per favorire lo sviluppo industriale sarebbero stati necessari un milione di iscritti. E così avvenne. Nel 1970 gli studenti degli Istituti tecnici erano diventati 951mila. Come è stato possibile ottenere questo risultato? Con un lungimirante, efficace e continuativo impegno di orientamento. E con uno straordinario collegamento tra scuole e imprese. Non a caso molti Istituti Tecnici conservano il nome di  grandi imprenditori che ne hanno favorito lo sviluppo. Con la grande competenza tecnica di moltissimi presidi che conoscevano il mondo industriale. Con tanto laboratorio. Con un fortissimo raccordo tra offerta formativa scolastica e esigenze delle imprese. Con docenti di materie tecniche che provenivano dal mondo dell’impresa. Periti industriali, elettrotecnici, geometri  e ragionieri hanno dato un impulso decisivo al boom economico italiano. Una grande parte degli imprenditori delle piccole e medie imprese italiane provenivano da blasonati Istituti Tecnici, la cui reputations spingeva le famiglie a considerarli vere scuole d'eccellenza. Basti pensare all'Aldini-Valeriani di Bologna, al Quintino Sella di Biella, al Paleocapa di Bergamo, al Carcano di Como, al Kennedy di Pordenone, al Corni di Modena solo per citarne alcuni. Scuole che hanno formato il ceto imprenditoriale e l'aristocrazia operaia.
 
L’eclissi del lavoro - Poi qualcosa di inaspettato è successo. Gli  studenti degli Istituti tecnici avevano raggiunto il 46%. Poi si è avviata una progressiva e continua riduzione degli iscritti  agli Istituti tecnici.  Questo fenomeno può essere interpretato in molti modi e ha certamente comprensibili motivazioni.  L’esigenza di fornire ai giovani una solida preparazione di base è stata affrontata  in modo riduttivo sostituendo il modello liceale al modello di apprendimento attraverso il fare e riducendo negli Istituti tecnici e professionali la preparazione tecnica.  Il modello di apprendimento legato al sistema di produzione fordista  doveva essere abbandonato,  ma con quel modello è stata abbandonata la capacità di sviluppare competenze attraverso la soluzione di problemi e la trasformazione della realtà, a favore di un incremento di lezioni teoriche.   Il lavoro, le competenze, il laboratorio, hanno via via attenuato la loro importanza didattica. Sono prevalse le discipline, o meglio il disciplinarismo. Ma soprattutto è prevalsa l’idea, tipica della cultura politica italiana dominante, che eguaglianza coincidesse con uniformità. Così come la scuola media unica negli anni Sessanta,  e l’abolizione dell’Avviamento professionale era stata salutata come una conquista che consentiva a tutti gli studenti di avere uguali opportunità formative, eliminando una tipologia scolastica  che era  di fatto  destinata ai meno abbienti, e determina a  una discriminazione inaccettabile (l’orientamento precoce al lavoro per alcuni e la possibilità di accedere  ai più alti livelli di studio e di posizione sociale per altri), analogo processo si è andato determinando per gli studenti delle scuole superiori.  Alcuni chiamano questo fenomeno liceizzazione Sta di fatto che gli iscritti all’Istruzione tecnica sono scesi dal 46 al 30%.  Negli stessi anni le imprese italiane, per stare sui mercati, raddoppiavano il numero dei tecnici. L’Italia è passata  da 12 tecnici (periti meccanici, elettronici, chimici, tessili etc) su 100 assunti  a 22, superando la Germania. Negli stessi anni in Italia avveniva un fenomeno abbastanza singolare. Si potrebbe ironicamente definire  “lusso di massa”. I licei, tradizionale scuola delle elite, superavano per numero di iscritti, di gran lunga, gli Istituti tecnici. Ogni famiglia legittimamente aspirava al meglio. E gli stessi Istituti Tecnici progressivamente si liceizzavano. Riduzione drastica del numero di ore destinato alle discipline tecniche. Dimezzamento delle ore di  Laboratorio, indebolimento dei legami con il territorio e con le imprese. Mentre l’impresa chiedeva più tecnici, la scuola ne offriva di meno. Si era dunque staccata la scuola dal lavoro. Didatticamente e pedagogicamente si veniva smarrendo il valore educativo dei compiti di realtà e dell’esperienza del lavoro. Si separavano progressivamente i fabbisogni produttivi e l’offerta formativa. Con i risultati che vediamo sotto i nostri occhi. E il disorientamento che pagano soprattutto i nostri giovani. Talentuosi, bravi, determinati, spesso si scontrano con la realtà del lavoro, dopo aver fatto scelte formative sbagliate. L’aver  scambiato l'eguaglianza per uniformità ha come conseguenza la disoccupazione giovanile da noi particolarmente elevata.  La Germania ha fatto scelte diverse conservando all’interno del percorso scolastico una significativa differenziazione tra percorsi liceali e percorsi professionali, che hanno pari reputation e pari dignità. Questo Paese che è dotato di un sistemò manifatturiero con caratteri analoghi a quello italiano, a differenza del nostro, ha conservato il valore educativo del lavoro in specifici e molto apprezzati percorsi formativi, fino ai percorsi terziari professionalizzanti. Merita rilevare che mentre le Fachochscule hanno oltre 800mila studenti i nostri It's si fermano a 10mila allievi. In Germania i giovani che studiano e lavorano supera il 23%  e la disoccupazione giovanile non raggiunge il 3%. Da noi i giovani che studiano e lavorano, in percorsi di apprendistato, sono il 3% e la disoccupazione giovanile supera il 25%. Studi empirici hanno significativamente dimostrato che la diffusione uniforme dei percorsi formativi senza specializzazione crea disoccupazione.
 
La ciliegina sulla torta - Il progressivo indebolimento dei percorsi formativi collegati con il lavoro ha un triste epilogo. Nel 2014, il MIUR prende atto formalmente di questa eclissi e ne  trae tutte le conseguenze. Dopo anni in cui la Direzione generale dell’Istruzione tecnica, aveva accompagnato e favorito il raccordo con le imprese e attraverso i progetti assistiti, temperato le conseguenze dei processi di liceizzazione,  arriva la decisione fatale.  Dovendo contenere il numero di direzioni generali, in conseguenza delle necessarie politiche di contenimento della spesa pubblica attraverso la spending review , il MIUR deve   sopprimere il 20 % delle direzioni generali. Si decide, tra le altre, di sopprimere la Direzione Generale dell’Istruzione tecnica, che  nel corso degli anni è stata la cabina di regia delle politiche scolastiche orientate al lavoro e all'impresa. Nonostante la manifesta opposizione di Confindustria  e dei sindacati confederali e i pareri decisamente contrari di personalità attente alle dinamiche del rapporto tra politiche pubbliche e  sviluppo industriale, come Romano Prodi e Luigi Berlinguer, la Ministra Carrozza del PD  firma questo Decreto. Una scelta discutibile che viene da una parte politica  che nella sua storia ha il lavoro  come  base del suo DNA.  In  una Repubblica "fondata sul lavoro", tale scelta appare  quanto meno contraddittoria. Ma c'è anche chi la trova naturale e prevedibile. A poco è servito il generoso e ingenuo tentativo della sinistra pragmatica e riformista di salvare il valore educativo del lavoro. Come noto il  governo Renzi nel 2015 rende obbligatoria l’alternanza scuola-lavoro, con un numero di ore forse non compatibile con un sistema scolastico, che specie nelle zone con minore industrializzazione, si era andato liceizzando. Chi frequenta le stanze del Ministero dell’Istruzione da molti anni ha registrato la completa eclissi di Ispettori Ministeriali specializzati  nei settori industriali. E anche l’alternanza obbligatoria è presto finita in soffitta, sostituita nel 2018  dai famigerati  PCTO  (percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento). La drastica riduzione delle ore dedicate all’alternanza è un ulteriore preoccupante segnale dell’eclissi del lavoro nella scuola.
 
Un paese a vocazione manifatturiera - Eppure l'Italia resta il secondo Paese manifatturiero in Europa (dopo la Germania), e secondo gli ultimi dati Excelsior mancano all’appello 240.000 profili tecnici e professionali che le imprese cercano, ma non trovano. In passato a caratterizzare la crescita economica italiana è stato l’incontro tra domanda delle  imprese e offerta formativa. Dal 1959 al 1970, mentre il PIL italiano cresceva del 6% ogni anno, il numero dei giovani che sceglievano istituti tecnici e professionali si è quadruplicato. Al contrario, quando la crescita dell’Italia si è fermata, appunto negli anni Novanta, si è accentuato anche il divario tra domanda delle imprese e offerta formativa.
 
Che fare? - Che fare di fronte a questa eclissi della cultura del lavoro nelle politiche pubbliche dell'education? A poco serve strapparsi le vesti. È molto utile moltiplicare le ricerche che studino gli effetti di questa eclissi. Ed è prezioso accendere qualche riflettore che dia visibilità nazionale a scuole che abbiano consolidato il rapporto con le imprese e a programmi formativi ispirati a didattica laboratoriale e work based learning. Negli ultimi anni,  in qualità di direttore scientifico,  ho cercato di valorizzare le reti delle scuole tecniche e professionali negli annuali appuntamenti a Verona di Job e Orienta (una fiera giunta alla trentesima edizione che coinvolge 80mila visitatori). Reti come M2A (istituti meccatronici), Tam (moda), Renaia (alberghieri), Renisa (Agroindustria), ITEFM (istituti a indirizzo economico) e Rete dell'innovazione, (che raccoglie scuole statali e paritari d'eccellenza nel campo della didattica digitale). Tutte reti di scuole che in assenza di politiche nazionali  tengono viva nei territori la  cultura del lavoro. E’ strategico  investire su queste reti e su scuole polo come centri territoriali di divulgazioni di buone pratiche. L’economia italiana è basata sul settore manifatturiero, eppure troppi continuano ad ignorarne l’importanza. Per correggere questo "strabismo" queste reti di scuole hanno sviluppato creative azioni di orientamento. Basti pensare alla "notte della moda" in collaborazione con  Confindustria moda, a "storie di alternanza" in collaborazione con UnionCamere, alle Olimpiadi dell'automazione in collaborazione con Siemens o ai progetti di apprendistato di primo livello in collaborazione con Enel. Tutte azioni volte a rafforzare l’identità del filone dell’istruzione tecnica, base del pragmatismo innovativo che caratterizza le imprese italiane e costituisce parte significativa della loro competitività. Molte scuole - penso ad esempio al Carcano di Como, al Leopoldo di Lorena di Grosseto, al Paleocapa di Bergamo - sono supportate da Fondazioni che ne favoriscono lo sviluppo e il raccordo col territorio. Per crescere dobbiamo puntare sul cuore del nostro sistema produttivo: l’industria manifatturiera che ci ha garantito lo sviluppo nel passato e ci offrirà la possibilità di ripresa nei prossimi anni. Un ruolo centrale all’apprendimento sul lavoro (alternanza scuola-lavoro, stage in azienda) per collegare maggiormente l’azione della scuola al territorio e alle imprese, favorendo nei giovani lo sviluppo di una solida formazione iniziale e realizzando un piano nazionale per diffondere l’insegnamento pratico e la didattica sperimentale in laboratorio. Favorire percorsi di transizione scuola–lavoro finalizzati a facilitare sia il proseguimento negli studi  che  l’ingresso nel mondo del lavoro.
 
di Claudio Gentili

 
Bibliografia essenziale
Matthew Stewart, Il cortigiano e l'eretico, Feltrinelli, 2019
Dario Nicoli, Istruzione e formazione tecnica e professionale in Italia. Il valore educativo e culturale del lavoro, LAS, 2011
Luisa Ribolzi (a cura di), La riforma degli istituti tecnici. Manuale di progettazione, Laterza, 2010
Luisa Ribolzi, Claudio Gentili, Angelo Maraschiello, Paola Benetti, Vittoria Gallina, Dai saperi alle competenze, il Mulino, 2020
Claudio Gentili, Scuola e extrascuola, Editrice La  Scuola, 2002
Claudio Gentili, Umanesimo tecnologico e istruzione tecnica. Scuola, impresa e professionalità, Armando, 2005
Claudio Gentili, Scuola e impresa. Teorie e casi di partnership pedagogica, Franco Angeli, 2012
Carlo Barone, Orientamento, equità, scelta degli studi, Rivista dell'istruzione, Anno 30 (2014), n. 5
Claudio Gentili, L'alternanza scuola-lavoro: paradigmi pedagogici e modelli didattici, Nuova Secondaria, n. 10, giugno 2016 - Anno XXXIII
Claudio Gentili, "Time out" for Classical Studies? The future of Italian Liceo Classico in the 4.0 World, Estudios Sobre Educacion, ottobre 2018, pp. 127-143


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